Jean-Claude Izzo, Casino totale
Un libro: uno, due, dieci pugni nello stomaco. Dentro il mondo di Izzo c'è tutto, troppo per far finta di niente: la rabbia, l'ingiustizia, il riscatto sociale degli immigrati che si scontra col nascente razzismo della società francese (e non solo) degli anni Novanta, l'amore, la disperazione, l'inquietudine, l'amicizia (quella vera, per la pelle fino al significato letterale del termine). Casino totale mi ha ricordato una tragedia greca, col suo modo di colpire raccontando un sentimento, odio o tenerezza che sia.
Marsiglia mi ha fagocitato, mi ha raccolto e buttato in mezzo alle sue strade, nei suoi quartieri, fra i colori della sua gente, mi ha aperto alla compassione e all'indignazione. Fabio Montale è più di Harry Bosch, più di Harry Hole, disperato e lucido come pochi, un italiano di Francia, un inadeguato, un uomo di cuore e di onore in un mondo estraneo e astioso. In un solo romanzo perde tutto ciò che ha di più caro e ritrova comunque la forza di vivere, lasciando da parte (per sempre?) lo sforzo di combattere. Arrendersi a volte significa rinascere. Amare a volte significa guarire.
C'è un brano di questo libro che mi ha inchiodato alla pagina, mi ha fatto innamorare di questo personaggio e mi ha fatto capire che l'avrei letto e vissuto fino all'ultima riga:
"Triste quella sera, lo ero. La morte di Ugo mi restava sullo stomaco. Mi sentivo oppresso. E solo. Più che mai. Ogni anno, cancellavo dalla mia agenda gli amici che facevano discorsi razzisti. Trascuravo coloro che sognavano solo macchine nuove e vacanze al Club Med. Dimenticavo tutti quelli che giocavano al lotto. Amavo la pesca e il silenzio. Camminare sulle colline. Bere del Cassis freddo. Del Lagavulin o dell'Oban, tardi nella notte. Parlavo poco. Avevo le mie idee su tutto. La vita, la morte. Il Bene, il Male. Andavo matto per il cinema. Ero appassionato di musica. Non leggevo più i romanzi contemporanei. E più di tutto, mi facevano schifo i pavidi, i mollaccioni. "
La trilogia marsigliese è appena iniziata.
Marsiglia mi ha fagocitato, mi ha raccolto e buttato in mezzo alle sue strade, nei suoi quartieri, fra i colori della sua gente, mi ha aperto alla compassione e all'indignazione. Fabio Montale è più di Harry Bosch, più di Harry Hole, disperato e lucido come pochi, un italiano di Francia, un inadeguato, un uomo di cuore e di onore in un mondo estraneo e astioso. In un solo romanzo perde tutto ciò che ha di più caro e ritrova comunque la forza di vivere, lasciando da parte (per sempre?) lo sforzo di combattere. Arrendersi a volte significa rinascere. Amare a volte significa guarire.
C'è un brano di questo libro che mi ha inchiodato alla pagina, mi ha fatto innamorare di questo personaggio e mi ha fatto capire che l'avrei letto e vissuto fino all'ultima riga:
"Triste quella sera, lo ero. La morte di Ugo mi restava sullo stomaco. Mi sentivo oppresso. E solo. Più che mai. Ogni anno, cancellavo dalla mia agenda gli amici che facevano discorsi razzisti. Trascuravo coloro che sognavano solo macchine nuove e vacanze al Club Med. Dimenticavo tutti quelli che giocavano al lotto. Amavo la pesca e il silenzio. Camminare sulle colline. Bere del Cassis freddo. Del Lagavulin o dell'Oban, tardi nella notte. Parlavo poco. Avevo le mie idee su tutto. La vita, la morte. Il Bene, il Male. Andavo matto per il cinema. Ero appassionato di musica. Non leggevo più i romanzi contemporanei. E più di tutto, mi facevano schifo i pavidi, i mollaccioni. "
La trilogia marsigliese è appena iniziata.

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