L'africa che amiamo ci ama ancora?

Kenya, 9 anni dopo. L'aeroporto di Mombasa si è modernizzato, ci sono ancora solo 4 gate ma si respira un'aria di maggiore efficienza, per entrare nel paese ora bisogna lasciare le impronte digitali di entrambe le mani e sono apparsi i primi computer. Attendo di uscire e ritrovarmi di nuovo faccia a faccia con la prima immagine che memorizzai in maniera indelebile la prima volta che atterrai qui: la bidonville di Mombasa. Pochi centinaia di metri ed eccola: ancora animali e bambini che rovistano nell'immondizia, ancora case precarie ricoperte di lamiera, in alcune aree però è più organizzata, ci sono dei chioschetti e persino un salone di bellezza (le donne di qui hanno acconciature splendide, è uno dei pochissimi vizi che si concedono se lavorano e possono permetterselo). Vedo tanta gente camminare verso le uscite, verso la strada, a piedi come qui accade da migliaia di anni.
Attraversiamo col pullman tutta la città, fino alla strada per Malindi. Due ore dopo siamo a Watamu, il villaggio dei miei ricordi non c'è più: si è trasformato in una cittadina pullulante di traffici, jeep pronte per i safari e agenzie viaggio, locali per italiani, chioschi che vendono alimentari, abbigliamento e souvenir. Per fortuna ci sono anche delle nuove scuole, comprese quelle secondarie per cui prima bisognava recarsi a Malindi, sobbarcandosi, oltre alla retta della scuola privata (circa 200 euro l'anno) il costo dell'autobus e chioschi dove approvvigionare l'acqua, questo sì che è un lusso da queste parti.
Nei villaggi turistici ora lavora molta più gente del posto rispetto al passato, certo costringerli a pulire le camere lasciate libere dai turisti alle 3 di notte è lontano anni luce dalla nostra concezione di diritti dei lavoratori. I beach boys si sono moltiplicati, da cinque sono diventati cinquanta, chiamano in direzione della spiaggia, offrono escursioni di ogni tipo, per 8 euro di accompagnano in quattro su un catamarano tenuto in piedi con lo spago. Loro sono la faccia più pulita dell'Africa che amo, non so quanto di quello che raccontano sia vero, sulle loro famiglie o la loro vita, ma parlando con loro appare il vero volto di un Kenya ancora in profonda difficoltà e nonostante questo l'ottimismo e la determinazione di andare avanti. Ci spiegano che preferiscono stressarci e offrirci qualcosa piuttosto che rubare, molto più di quello che fanno i nostri politici in Italia.
In viaggio per lo Tsavo attraversiamo zone molto povere, alcune sopravvivono solo di elemosina, in altre si fabbrica il carbone e si coltiva dove possibile pochi fazzoletti di terra. Durante lo stesso percorso nove anni prima avevo osservato solo volti sorridenti e bambini che urlavano a gran voce un saluto, l'impressione prevalente rimane quella ma ora ci sono anche sguardi torvi, gesti poco amichevoli. La realtà si materializza la notte del ritorno in Italia, mentre percorriamo lo sterrato che ci divide dalla strada principale, è notte fonda e un sasso colpisce il pullman: due finestrini vanno in mille pezzi, siamo sotto un temporale. Non ci fermiamo, proseguiamo fino al villaggio, cambiamo mezzo, arriviamo senza ulteriori incidenti a Mombasa. Salutiamo l'Africa con un po' di amaro nel cuore, troppa gente viene qui ad ostentare ricchezza, non curandosi minimamente di entrare in contatto con la cultura e la dignità di queste persone, a cui è vero garantiamo lavoro e un minimo di benessere ma a cui dobbiamo rispetto in quanto esseri umani.
Il mal d'Africa si tinge di nostalgia, in attesa del ritorno.

Commenti

Post più popolari