Cocktail Party

Thomas Stearns Eliot non era certo un autore facile.
Per decifrare i suoi poemi al liceo ci dotavamo non solo di dizionario ma anche di saggi, di testi antropologici, di narrativa classica. Come lui solo Yates per me è stato altrettanto difficile da comprendere e assimilare. Ma, una volta conosciuti entrambi, difficile poi accontentarsi di quanto offerto dagli altri. Perchè non si tratta di conoscere un mondo, ma di conoscerne molti, di mischiarli, di carpirne la profondità. All'inizio si prova quasi un senso di vertigine ma poi ci si abitua. Lo stesso ieri sera, alla rappresentazione al Teatro Oscar a Milano, del suo "Cocktail Party", un dramma in tre atti che mette a nudo l'ipocrisia dell'alta borghesia inglese negli anni Quaranta, la capacità di alcuni di plagiare, l'incapacità di altri di vivere in maniera indipendente, senza legami asfissianti e di pura convenienza. Alcuni sono Custodi, pienamente consapevoli della realtà umana, altri sono solo prigionieri di rituali sempre uguali e allo stesso tempo carichi di falsità come quelli del party. Chi pensava di conoscersi a fondo non si riconosce più, chi era scappato torna, chi viveva una storia d'amore logorante fugge, ma poi trova la morte come vittima sacrificale. C'è tanto in questo cocktail, molti ingredienti che creano una miscela unica, densa, a volte quasi impenetrabile, eppure lucida e tagliente, quasi spietata.

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